Il cristianesimo sionista è un fenomeno teologico e politico che negli ultimi decenni ha assunto un peso crescente nel dibattito internazionale. Alla sua base vi è l’idea che il ritorno del popolo ebraico nella terra d’Israele non sia soltanto un fatto storico o politico, ma l’adempimento di precise profezie bibliche. Questa visione, molto diffusa soprattutto in ambienti evangelici statunitensi e sudamericani, lega storia contemporanea a una interpretazione letterale della Scrittura, comprendendo gli eventi in Medio Oriente come tappe necessarie verso il compimento dei tempi finali. Il quadro dottrinale in cui si inserisce questa prospettiva è il dispensazionalismo, una corrente teologica nata in opposizione alle interpretazioni classiche della cristianesimo apostolico, nell’ambito del protestantesimo anglosassone ottocentesco con autori come John Nelson Darby. Secondo questa visione, la storia della salvezza è suddivisa in diverse “dispensazioni”, periodi in cui Dio si rapporta all’umanità secondo modalità specifiche. Una delle conseguenze di questa impostazione, oltre alla mancanza di una legge morale universale, è la separazione netta tra il ruolo della Chiesa e quello di Israele: quest’ultimo mantiene una missione profetica distinta, che va realizzandosi anche attraverso eventi geopolitici attuali. Introdurre il tema del cristianesimo sionista e dell’accelerazionismo biblico significa quindi interrogarsi non solo sulle sue implicazioni religiose, ma anche sull’impatto che queste idee esercitano sulla politica internazionale, sul dialogo interreligioso e sul modo stesso in cui credenti e non credenti leggono la storia.
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VENERDI’ 25 GIUGNO: AMEDEO MADDALUNO RACCONTA “ISRAELE NASCOSTO”
Israele è grande più o meno quanto la Toscana. Eppure, in quello spazio – poco più di 22.000 km² – convivono oltre 9 milioni di persone, con lingue, religioni, identità e memorie spesso in conflitto tra loro. Una società giovane e fratturata, che pare prosperare negli squilibri e in un clima di costante tensione: il suo PIL, spinto da alta tecnologia e difesa, ha superato i 500 miliardi di dollari, e la quota destinata alle spese militari è ormai prossima al 10%. Israele è molto più di ciò che appare nelle banalità dei notiziari. È un Paese che, in uno spazio minuscolo, concentra pulsioni e contraddizioni difficili da immaginare altrove. Dal deserto del Negev, dove l’ombra dei droni si posa su campi di pomodori irrigati con acqua salmastra riciclata, agli altopiani della Galilea, dove gli ulivi secolari convivono con le tensioni tra villaggi palestinesi e comunità ebraiche ortodosse. Dal polo tecnologico di Herzliya, cuore pulsante della start-up nation, ai quartieri della periferia sud di Tel Aviv, dove l’estremismo degli ebrei mizrahi di terza generazione si intreccia con le fatiche degli immigrati africani. Aranceti, kibbutz, locali gay, scuole rabbiniche e avamposti fortificati nei territori occupati.

